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Tra i tanti argomenti pratici nel discutere di terapia psicoanalitica, quello con cui vorrei iniziare è la scelta che un individuo fa quando decide di fare un percorso del genere. Indipendentemente dal fatto che essa si svolga in ambito privato o presso una struttura pubblica, ci sono indubbiamente delle differenze e delle questioni in comune nei due diversi contesti.

 Gli aspetti comuni ai due ambiti sono rappresentati da un atteggiamento di rispetto e di ascolto per le vicende, il più delle volte dolorose, della persona che arriva alla consultazione, libero da pregiudizi o preconfezionando soluzioni che allontanano il problema e che non consentono un ascolto autentico di chi ci sta di fronte e che faticosamente ci descrive quanto gli sta accadendo. Questo atteggiamento definisce una particolare “postura” che caratterizza lo psicoterapeuta in tutti i suoi gesti, anche in quelli extra terapeutici. In questo senso diventa fondamentale la personalità del professionista nel suo modo di approcciarsi al paziente, ma non solo, riguarda anche il suo essere una persona che ha raggiunto una sua coerenza e una stabilità che ha acquisito con la pratica e l’esperienza maturata.

Le differenze che si possono stabilire tra l’ambito privato e quello pubblico si possono riassumere e condensare nel diverso “setting” in cui si svolge la terapia. Per “setting” dobbiamo intendere il diverso contesto in cui si svolge il lavoro terapeutico, lo studio del professionista o la stanza di consultazione della struttura pubblica, l’uso del lettino (in un’altra occasione ne parlerò più approfonditamente), il compenso stabilito (il paziente privato paga di tasca propria, mentre nel pubblico è la struttura sanitaria che ne concorda il costo), la diversa frequenza delle sedute, per cui se in privato è possibile vedere un paziente anche più volte in una settimana, nell’ambito pubblico, quando va bene, una persona può essere vista ogni quindici giorni o anche con un intervallo più lungo. È’ confermato che con una maggior frequenza il lavoro può raggiungere una più ampia profondità, mentre, al contrario, una minor cadenza porta a risultati meno stabili in quanto la consapevolezza che viene raggiunta è più oscillante. Ciò è facilmente intuibile se consideriamo che tra un incontro e l’altro passa un certo periodo, per cui per riprendere da dove era stato interrotto ci vuole più tempo, diversi aggiustamenti e una maggior fatica a recuperare il filo che era stato sospeso, senza considerare che nel frattempo possono essere intervenuti altri accadimenti che richiedono una diversa attenzione e allontanano dal punto in cui ci si era lasciati la volta precedente. Una maggior continuità di dialogo è possibile se viene maggiorata la frequentazione, ma questa possibilità risulta improbabile in una struttura pubblica, considerando che in questo caso solo un ristretto numero di persone potrebbe venire seguita e che ben presto il servizio risulterebbe saturato dalle richieste e messo nella condizione di non poter servire ad un numero più ampio di utenti.

Prima ancora che venga compiuta una scelta, i primi colloqui servono anche a stabilire quale sia l’idoneità della persona ad avere verso di sé un atteggiamento di tipo psicoanalitico, se ci troviamo di fronte a qualcuno che è in grado di cogliere i legami che esistono fra quello che gli accade e certi processi che avvengono dentro di lui e metterli in relazione. Faccio un breve esempio per chiarire questo concetto.

Durante un primo colloquio un paziente descrive come si trovi di frequente coinvolto in situazioni sociali in cui viene osteggiato ed evitato dagli altri, e come questo atteggiamento sia per lui fonte di sentimenti di estraneità e di rabbia a stento trattenuta. Nel proseguo del colloquio, parlandomi delle sue esperienze, il paziente associa le situazioni che si trova a vivere ora ad altri momenti, che appartengono ad altri contesti, dove si ripetono le stesse condizioni in cui avverte di venir emarginato e snobbato dagli altri. Metto in relazione le due cose, facendogli osservare che pur cambiando i contesti il vissuto risulta il medesimo.

Egli allora mi dice come le stesse condizioni erano presenti fin da bambino quando sentiva che in famiglia il fratello era il beniamino di casa e i suoi genitori non nascondevano per lui una certa predilezione, il cui successo a scuola li riempiva di orgoglio e li appagava, mentre il suo procedere stentato veniva di continuo rimproverato ed era fonte di mortificanti confronti con il fratello.

Ecco allora che si realizza la congiunzione fra le esperienze del passato e quelle attuali, come lo stato che sta vivendo ripete quello già vissuto quand’era bambino e mostra la fatica che il paziente continua a fare per affermare il valore di sé e il respingimento che ottiene dagli altri. Egli ha internalizzato una rappresentazione di sé inadatta ed incapace di affermarsi in quello che fa, mettendo in luce come nel suo presente riviva le condizioni del suo passato. Viene da chiedersi perché mai debba ripetere qualcosa che gli è doloroso e che gli procura sentimenti di dispiacere. Freud l’ha spiegato introducendo il concetto di “coazione a ripetere”, che in sintesi rappresenta la tendenza dell’individuo a ripetere il suo conflitto nevrotico, riproducendo quegli elementi non sotto forma di ricordi ma sotto forma di azioni, senza rendersene conto. Svelare il legame che esiste fra i suoi comportamenti attuali e quanto è accaduto in tempi più lontani rappresenta il ponte che consente al paziente di riconciliarsi con le sue vicende del passato e di proseguire un cammino evolutivo che ha subito degli intoppi a causa di quelle stesse esperienze.

Nel caso che ho trattato si può stabilire che esista una disponibilità a mettere in relazione quanto accade ora con quegli aspetti di sé che hanno origine da epoche più remote e che hanno determinato la particolare scelta del carattere dell’individuo. Egli è ora in grado di riflettere su di sé in modo intrapsichico, cogliere la natura del suo malessere e dare ad esso un significato, derivante dal fatto che si rende conto di essere lui stesso a mettere in piedi quelle situazioni che lo portano a vivere i sentimenti di estraneità di cui si lamenta.

Non sempre è così semplice per un individuo cogliere tali legami e molto spesso si difende da questa consapevolezza attribuendo ad altre le cause, il più delle volte esterne a sé, del suo disagio. Egli utilizza vari “meccanismi di difesa” per salvaguardarsi da una consapevolezza che gli è molto dolorosa e che lo spinge a guardare altrove, in ogni caso fuori di sé, per giustificare il proprio malessere. Il paziente ne ha pienamente diritto e nell’approcciarsi a lui bisogna tener conto del fatto che tale sistema si è sviluppato nel corso della sua evoluzione e che, anche se ora è distonico, era sintonico all’epoca in cui è stato introdotto e gli è servito per far fronte a dei conflitti che allora erano per lui intollerabili o perché non aveva le risorse per farvi fronte in un altro modo o perché temeva di venirne sopraffatto in modo irreparabile.

Torniamo ora alla questione della psicoterapia fatta in ambito pubblico. Si potrebbe sostenere che in un tale contesto essa sia meno efficace per le ragioni che ho cercato di sottolineare poc’anzi. Ci sono però altre considerazioni che devono essere fatte. Al servizio pubblico afferiscono le persone che non possono permettersi una terapia privata in quanto non dispongono delle risorse sufficienti da destinare ad un lavoro che si protrae nel tempo (deve comunque anche essere valutata l’idea che tale motivazione possa anche costituire una resistenza a fare un lavoro approfondito su di sé che richiede anche una disponibilità emotiva per iniziarlo), che implica un investimento economico che per molte ragioni molti non possono concedersi. Cogliamo tuttavia anche una differenza che non va sottaciuta. Quando si tratta di sottoporsi ad una cura costosa, costi quel che costi, un individuo fa i salti mortali per procurarsi le risorse necessarie a farvi fronte, magari impegnando anche quel poco che ha ed affidando al medico la sua speranza di guarigione. Perché non è così anche nel campo della malattia psicologica, perché ci sono maggiori resistenze a fare un investimento di valore anche verso la persona dello psicoterapeuta? Non si tratta solo di denaro, ma la questione riguarda il diverso grado di coinvolgimento, seguendo il pensiero di J. Sandler, prendiamo in considerazione le forme di malattia che sono di origine “psicogena”, che sono quelle malattie che sono evidenti sul piano fisico e che comportano una compromissione di un particolare organo o tessuto del corpo, ma la cui origine è da imputarsi a dei conflitti psicologici che non vengono elaborati sul piano mentale traslando in un danno a carico del corpo o dei tessuti. Una tendenza fondamentale dello sviluppo è rappresentata dal bisogno di mantenere o di ristabilire una condizione associata al funzionamento armonico e ben integrato di tutti gli apparati e delle rappresentazioni di sé, al fine di preservare un sentimento di base di benessere e sicurezza. Quando non siamo in grado di mantenere questa condizione di base si sviluppa una tensione spiacevole a causa di una discrepanza ideativa fra lo stato desiderato di benessere e la percezione, a qualsiasi livello, di uno stato di malattia, il cui conflitto può essere all’origine di una risposta di tipo depressivo quando non siamo in grado di ripristinare la condizione precedente. Alcuni individui sviluppano un dolore fisico di natura psicogena per spostare questa dolorosa discrepanza in un danno a carico del corpo o dei tessuti, sostituendo una forma di dolore ad un’altra, anche se il dolore fisico è più concreto in quanto riescono a tollerarlo meglio e riescono ad accettare il dolore fisico meglio di quanto possano tollerare il dolore psicologico, mettendo in salvo la propria autostima in quanto la propria capacità di funzionare e compromessa da dei disturbi fisici e non da condizioni a carico del sé, riducendo in questo modo il senso di colpa o la responsabilità per un insuccesso. Essi non hanno raggiunto una soluzione stabile capace di far fronte al dolore psichico e se questa difesa fallisce si può produrre una risposta depressiva.

È necessario dire qualcosa anche a proposito della depressione. Normalmente si ritiene che tale stato rappresenti per l’individuo una fonte di dolore che debba essere curata in quanto tale, senza chiedersi quale funzione essa può avere nella persona al momento dato e in seguito a quali condizioni essa si sia instaurata. Se proviamo a considerare la reazione depressiva come uno stato affettivo che segnala una discrepanza tra la rappresentazione psichica dello “stato attuale del Sé” e una sua possibile “forma ideale”, legata al mantenimento di uno stato di base di benessere e sicurezza, vediamo che tale risposta costituisce lo stimolo più importante per la messa a punto e la regolazione delle risposte adattive dell’individuo. La reazione depressiva è l’indice di una situazione di impotenza, e di rassegnazione di fronte al dolore psichico, che segnala un atteggiamento di capitolazione e di incapacità a ripristinare una condizione di sostanziale benessere. Il dolore, di per sé, non coincide con la risposta depressiva. Quando l’individuo è in grado di lottare contro alla perdita del suo stato di benessere o confeziona nuovi ideali più consoni alla sua nuova condizione, costruendo nuovi stati ideali più appropriati alla realtà, allora la reazione depressiva non si instaura. 

Questo preambolo è stato necessario per affermare che la reazione depressiva non è necessariamente l’oggetto del nostro immediato intervento e che è molto più proficuo considerarla una risposta affettiva, che va intesa nel contesto in cui si sviluppa e nel significato che ha per l’individuo in quel momento particolare. Quando la persona è in grado di tollerarla, quando non supera una soglia critica, essa rappresenta la molla che spinge l’individuo a trovare nuove soluzioni necessarie a produrre dei cambiamenti nella sua condizione del momento.

Luciano Rizzi, psicologo-psicoterapeuta

 

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Aprile 15, 2016

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