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Nella relazione precedente indirettamente si è introdotto un concetto molto importante che è quello dell’induzione di ruolo.

È utile averne un’idea in quanto lo troviamo connesso a molte situazioni della vita reale, quando ci troviamo a rispondere agli altri o adottiamo certi comportamenti che non fanno parte del nostro normale atteggiamento e che mettiamo in atto senza avere una chiara consapevolezza del perchè agiamo proprio in quella maniera, o nel modo opposto, facciamo sì che l’altra persona si comporti come desideriamo che  faccia. Essi sono da intendere come dei tentativi di provocare delle situazioni intersoggettive motivate dalla necessità di liberarsi da un conflitto che è divenuto intollerabile per chi gli agisce e che sono la ripetizione di precedenti esperienze e soluzioni, alle quali si connette una inconscia predisposizione della persona a rispondere in quella maniera complementare in quanto l’altro rappresenta, per qualche suo attributo, un’importante figura del passato.

Provo a far capire come tutto questo avvenga utilizzando un esempio clinico.

Si tratta di una signora un po’ oltre la mezza età che sta affrontando in analisi un problema assai delicato connesso alla nuova condizione della propria madre, quasi novantenne, che vive sola nella vecchia casa paterna e che non è più in grado di essere del tutto autosufficiente. Il conflitto attuale della paziente scorre a fianco di un altro parallelo che riguarda la separazione e individuazione da figure (il rapporto con la madre ne è solo il prototipo) intensamente idealizzate. La signora si è sposata relativamente tardi e diverse relazioni precedenti sono sfumate in vista del matrimonio. Anche con suo marito ha sopportato grosse difficoltà interiori prima e dopo essersi sposata. Fino ad allora la signora era sempre vissuta in casa dapprima con entrambi i genitori e alla morte del padre con la sola madre. I due fratelli maschi s’erano sposati e usciti da casa molto giovani. Lei era rimasta lì per molto tempo con la convinzione di dover accudire alla casa e, nei limiti consentiti dalla propria attività, per aiutare la madre nei lavori riguardanti alcuni campi di proprietà. Dopo il matrimonio s’era allontanata sempre di più dalla vecchia casa per seguire le vicende e gli impegni di lavoro di suo marito e ogniqualvolta ci faceva rientro, come per sopprimere un profondo senso di colpa e per sentirsi accolta, riassettava la casa da cima a fondo vestendo gli umili panni di serva e svolgeva i lavori nei campi. Ciò le serviva per placare il suo disagio, ma quando aveva terminato questo riaffiorava insieme alla sensazione di non potersi concedere al piacere di stare in oziosa compagnia di sua madre. Quest’ultima si era trasformata dentro di lei in una figura estremamente esigente che la poteva accogliere solo se lei le sacrificava così faticosamente tutte le sue energie. Su un altro versante ciò le induceva un profondo senso di amarezza e le provocava dei risentimenti che le era sempre più difficile dissimulare.

Per gli scopi di questa trattazione mi limito alla considerazione del problema che attualmente deve affrontare la signora, se accogliere la madre nella propria casa ed occuparsene, dal momento che i suoi fratelli a più riprese le hanno fatto capire che loro non lo vogliono fare e che lei ne resta la persona più idonea (anche in questo caso le è possibile soddisfare il desiderio di vicinanza nei riguardi della madre in una condizione di sacrificio e di costrizione, dietro le pressioni dei fratelli che le “impongono” di occuparsene). Da un lato la paziente lo vorrebbe in quanto ciò equivarrebbe a ripristinare un ideale rapporto con la madre, dall’altro la soluzione le è gravosa perché avverte presente la minaccia di reimpostare quell’umiliante rapporto di servaggio che sente come l’unica modalità per ottenere l’affetto e la vicinanza di una figura idealizzata.

Alla paziente è tuttavia difficile sentire come propria quella parte che non vorrebbe oc-cuparsi di sua madre. Il conflitto viene ricomposto non su di sé ma con l’aiuto di una figura esterna, in questo caso suo marito, al quale viene affidata la parte di chi si oppone a ricevere in casa sua madre. L’aspetto del rifiuto ad occuparsi della madre è staccato da lei e viene “messo dentro” suo marito che agisce la parte di chi è contrario e che si oppone a questa soluzione. Ciò le permette di preservare la parte di Sé buona e idealizzata e di tenere controllata e di attaccare l’altra parte (esternalizzata su suo marito) che manifesta la propria contrarietà. Su un piano puramente descrittivo il marito interagisce con la paziente cogliendone esclusivamente l’aspetto che ha a che fare con il rifiuto ad occuparsi della madre. La paziente se ne sente così “liberata” e può conservare al proprio interno la parte di Sé che desidera occuparsi della madre con affettuosa dedizione. Si direbbe una semplice esternalizzazione se da parte della figura esterna non ci fosse anche un concreto farsi carico degli aspetti di Sé dai quali la paziente vuole sentirsi liberata, che attira su di sé la rappresentazione incompatibile e sul quale la paziente può riversare quegli attacchi che altrimenti sentirebbe destinati a sé stessa.

Vediamo in dettaglio che cosa succede. Nella paziente le rappresentazioni incongruenti sono costituite dal suo desiderio di un rapporto unico con la madre e dal bisogno di separarsi ed individuarsi da essa. Le due figure sulle quali si rappresenta questa contrapposizione sono la madre, che lei vive come chi la vorrebbe tenere legata a sé e con cui mantiene un rapporto vischioso e il marito che dentro di lei agisce il ruolo di chi è fedele e geloso custode della propria autonomia. Accettare al suo interno i propri desideri di individuazione significherebbe per la paziente rinunciare alla relazione con l’oggetto idealizzato che, su un altro versante, la farebbe sentire esposta agli attacchi di una madre interna onnipotente che non tollererà la sua autonomia. La soluzione viene trovata esternalizzando sulla figura esterna il proprio rifiuto di occuparsi della vecchia madre, facendo agire al marito il ruolo di chi, con l’intento di salvaguardare la propria arbitrarietà, si oppone a ricevere in casa la suocera, anche se non ha particolari ragioni o comunque non impostando il problema sulla base di altre considerazioni. Il marito, d’altra parte, è sensibile alla collusione con la parte esternalizzata della paziente per la propria necessità di staccarsi da oggetti sentiti come troppo vincolanti. La paziente attribuisce al marito il rifiuto di tenere in casa la madre, ma ora si tratta di una decisione che sente non provenire da lei, cosicché sottopone il marito agli attacchi altrimenti destinati a sé stessa.

In questo modo la paziente può conservare il proprio desiderio di un rapporto intimo con la madre idealizzata e, allo stesso tempo, soddisfare la propria richiesta di separazione da un oggetto interno vissuto come onnipotente.Ciò che viene regolato sono dei desideri interni che vengono vissuti come incompatibili, nel caso trattato il bisogno della paziente di separarsi da un’onnipotente madre interna. Nel mondo rappresentativo della paziente è il marito che si oppone al suo ideale di rapporto con la madre e sul quale viene esternalizzato il proprio desiderio di individuazione.

Da questo esempio vediamo come agisca il bisogno della paziente di liberarsi da un intollerabile conflitto interno, inducendo in un’altra figura, il marito in questo caso, il bisogno che assuma su di sé un polo del conflitto, per cui sentendosi sgravata dalla fatica di sopportare come proprio il desiderio di non accogliere in casa la propria madre, ella può conservare dentro di sé unicamente il suo desiderio di un rapporto intimo ed idealizzato con essa. Molte volte per far fronte ad un nostro conflitto facciamo in modo di liberarcene attribuendo a qualcun’altro ciò che sentiamo come intollerabile quando lo considerassimo come un nostro desiderio. Staccato così da noi, aggiriamo le nostre difese e nello stesso tempo soddisfiamo il desiderio in un certo senso per “procura” facendo in modo che sia qualcun’altro ad agirlo, sopratutto se l’altra persona, per sue proprie caratteristiche, è spinto a colludere con il nostro bisogno.

dott. Luciano Rizzi, psicoterapeuta

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Agosto 9, 2016

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